Le riflessioni in chiave criminologica della nostra presidentessa, Avv.ta Tiziana Cecere e del Prof. Pierfrancesco Impedovo.
Si chiamava Martina Scialdone di soli 35 anni, l’avvocata romana con studio ai Parioli, esperta di diritto di famiglia che, ironia della sorte, si occupava con passione anche di violenza sulle donne, uccisa dal suo ex compagno, Costantino Bonaiuti, davanti ad un ristorante in zona Tuscolano.
La donna è morta poco dopo i soccorsi, giunti tempestivamente sul posto e allertati attraverso il 112. L’uomo, un 61enne, è fuggito subito dopo, ma poi è stato raggiunto dalle volanti della polizia e arrestato a Fidene, nel quadrante della periferia nord della capitale. Aveva un porto d’armi per uso sportivo.
Un testimone riferisce: «L’ha ammazzata sotto i miei occhi. Litigavano, nessuno è intervenuto».
Il 2023 è appena iniziato ed ecco balzare alle cronache il primo efferato femmincidio.
Lo abbiamo detto più volte in queste pagine, che la violenza di genere non è imputabile solo ed esclusivamente al “mostro” di turno, ma è da ricercare in radici più profonde di quanto si può immaginare.
Quando parliamo di femminicidio, quindi, evidenziamo un problema che trova le sue radici nella morfologia, ancora di matrice patriarcale, della nostra società post-moderna; in questo humus la donna è posta in una condizione di inferiorità in determinate relazioni sociali, familiari e lavorative che fa sentire gli uomini, primi tra tutti quelli che con lei condividono relazioni più vincolanti, nel diritto di discriminarla, maltrattarla, violarla ed in fine assassinarla.
L’atto violento che ha come epilogo la morte, è solo la punta di un iceberg, dove la parte più imponente del fenomeno rimane nascosto, mal documentata dai media e dalle statistiche.
Fa orrore, ed è giusto che così sia, ascoltare dai TG che una donna è stata uccisa dal marito o ex compagno, ma troppo spesso non riusciamo a comprendere quante altre donne, in silenzio, nell’ombra, lontano dalla vista, soffrono e subiscono violenze siano esse di natura fisica che di natura psicologica. Ma ancor più spesso, quel “lontano dalla vista” diventa una volontà omissiva di non voler vedere quello che succede, ritenendo che il fatto ricada nell’ambito di una dimensione privata, di un aspetto familiare, dove noi pensiamo di non dover mettere bocca, inconsapevoli che praticamente diventiamo complici di quella fenomenologia violenta.
Cruciale è dunque in questo contesto il ruolo di realtà istituzionali e sociali come FERMICONLEMANI, una rete di “attori” impegnata quotidianamente nelle attività di ascolto, sostegno, prevenzione, formazione, informazione e sensibilizzazione della collettività contro ogni forma di violenza e discriminazione.
Sul piano soggettivo, Il femminicidio, giova ricordarlo, è un omicidio che affonda le proprie radici in un terreno affettivo ed emotivo arido, scarsamente empatico, dove le persone sono ridotte a cose da usare e possedere.
Chi arriva a commettere un femminicidio è tendenzialmente incapace di accettare ed elaborare l’abbandono.
Spesso il femminicidio è l’epilogo di un altro reato troppe volte sottovalutato: lo stalking.
In un mondo emotivo narcisista ed infantile, l’altro viene percepito come uno strumento per soddisfare i propri bisogni.
Il bambino appena nato, vede nella madre un mezzo per sopravvivere e solo in seguito si affeziona a lei, riconoscendola come oggetto d’amore.
Dalle dinamiche del rapporto madre/figlio, oltre all’amore, emergono sentimenti distruttivi quali: la gelosia, il possesso e l’invidia.
Tali pulsioni emozionali se non vengono comprese ed elaborate correttamente dall’apparato psichico, danno vita a dinamiche comportamentali distruttive che generano risentimento, frustrazione, rabbia e odio, esattamente ciò che muove i comportamenti dello stalker nel compimento delle sue condotte.
Il femminicidio, dunque, spesso nasce da una profonda distorsione affettiva, emotiva comunicativa, improntata alla violenza, agita in un contesto disturbato, dove le fragilità: cognitive, emotive, affettive e sociali, dei soggetti in gioco, prendono il sopravvento.
In tale contesto, affettivamente deprivato e deprivante, per mantenere il controllo sulla persona viene agita ogni genere di violenza psicologica e fisica per garantire il mantenimento dello status quo. Per indebolire la volontà altrui vengono instillati, giorno dopo giorno, giudizi limitanti, critiche più o meno velate per ledere il senso di sicurezza, sino a generare profondi sensi di inadeguatezza, vergogna e colpa.Chi maltratta sminuisce sistematicamente l’altro, umiliandolo e annullandone anche la più banale libera manifestazione di sé.
L’amore è bellezza, l’amore è cura, l’amore è volere il bene incondizionato dell’altro anche quando si allontana.
Amore è soprattuttoamarsi e non lasciarsi ridurre a cosa tra le cose.
Il team di Fermiconlemani si unisce al cordoglio della famiglia e della comunità forense romana.
29 ottobre una data ricca di importanti traguardi…
La nostra associazione, determinata nell’amplificare costantemente la sua missione di lotta e prevenzione contro violenza e discriminazioni anche attraverso la collaborazione con altre organizzazioni, ha ufficializzato l’accordo di collaborazione con l’associazione putignanese Collettivo Street Sociale SPP-LIT per lo sviluppo e la divulgazione degli obbiettivi comuni attraverso l’organizzazione di attività in partnerariato.
La cerimonia si è tenuta in presenza della sindaca Avv.ta Luciana Laera, dell’assessora alle politiche sociali la Prof.ssa Anna Caldi, del dirigente del Commissariato di Pubblica Sicurezza Dott. Gerardo Di Nunno e della ispettrice superiore Dott.ssa Antonella Gallinotti, dando un importante messaggio di coesione fra istituzioni e associazioni nel contrasto e nella prevenzione di ogni forma di violenza in una realtà complessa quale quella del quartiere periferico putignanese.
Le impronte della nostra presidentessa Tiziana Cecere e della sindaca Luciana Laera, hanno dato simbolico avvio alla trasformazione di una delle panchine presenti nel parco quella che diventerà una panchina rossa in memoria delle donne vittime di femminicidio: ”il posto di chi non c‘è”…
Appuntamento il 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne, per l’inaugurazione dell’istallazione permanente.
Vi invitiamo a seguire la nostra pagina facebook “Fermiconlemani” per il calendario dettagliato…
L’approfondimento prende spunto dal controverso episodio di Primavalle risalente al 25 luglio scorso, che vede protagonista un ragazzo disabile precipitato dal balcone durante un controllo di polizia svolto presso la sua abitazione e in coma da 50 giorni.
Abuso di potere o tragica fatalità?
Simili notizie, scioccanti, campeggiano sistematicamente nelle cronache: le torture nel carcere di Asti e in quello di Sassari, il caso Cucchi, il G8 di Genova, le vicende della caserma di Bolzaneto, quelle alla scuola Diaz, solo per citarne alcune. Tutte vicende in cui le forze dell’ordine sono finite sotto accusa, evidenziando la sottile e spesso fragile linea di demarcazione che c’è fra l’abuso di potere e il dovere incombente sugli uomini dello stato di contenere i rischi, mantenere alta la vigilanza, individuare i migliori strumenti di prevenzione e quelli più efficaci di repressione.
L’Italia, sotto questo profilo, ha uno specifico problema: il tema è considerato un tabù. Non esiste una discussione pubblica, aperta, informata, libera sull’operato delle forze dell’ordine. Lo si vede anche in queste ore.
C’è chi parla di mele marce, chi si premura di mettere in luce la lealtà della grande maggioranza degli agenti, chi interviene per ribadire la fiducia dei cittadini negli apparati.
La tematica, di scottante attualità, sarà affrontata sotto il profilo giuridico, criminologico e psicosociale, dagli esperti di Fermiconlemani con un ospite d’eccezione, il Dott. Gianluca Venneri, criminalista, membro del Reparto Investigazioni Scientifiche dell’Arma dei Carabinieri e socio onorario di Fermiconlemani, in un dibattito schietto ed aperto all’interazione con tutti i partecipanti insieme al Presidente di Fermiconlemani Avv. Tiziana Cecere, al socio fondatore Dr. Marco Magliozzi, e i soci Avv. Serena Zicari e Prof. Pierfrancesco Impedovo.
Contatti e info: 800 822538 – info@fermiconlemani.it – www. Fermiconlemani.it
244° giorno dell’anno 2022 e 78 vittime di femminicidio.
A questo punto, penso che riflettere sul caso specifico, sulle dinamiche, o sugli aspetti psicologici rischi di diventare ripetitivo, e nulla s’andrebbe ad aggiungere alle tante voci di autorevoli colleghi che già hanno apportato tante considerazioni di questo genere.
E allora, vorrei provare a fare delle considerazioni un po’ più di ampie, provare a dare un altro punto di vista, il mio punto di vista.
Quello della violenza domestica mi sembra sia diventato ormai un cancro, che purtroppo si sta cercando di curare solo con della morfina, morfina sicuramente importante per lenire il dolore ma non curativa.
Violenza che sembra avere i piedi infangati in due elementi comuni, l’amore e la gelosia.
Inizierei questa riflessione con due domande, la prima; cosa è l’amore?
Innumerevoli volte mi sono trovato nel mio lavoro a porre questa domanda e sempre l’elemento comune nella risposta è un senso di smarrimento; come non sai cosa è l’amore? Come faccio a definirlo? La difficoltà nel definire qualcosa che sembra essere scontato, ma che forse scontato non è; e allora proverò a definire l’AMORE prendendo la risposta dalla Bibbia, San Paolo, nella prima lettera ai Corinzi definisce l’amore:
L’Amore è paziente, è benigno l’amore;
non è invidioso l’amore, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L’Amore non avrà mai fine.
In queste poche righe penso che San Paolo abbia ben definito l’amore vero, quello che la maggior parte cerca e vorrebbe vivere. Tutto il resto è soddisfacimento di altri bisogni magari inconsci, che ci portano a volte in dinamiche alquanto ingarbugliate se non pericolose.
E allora quando crediamo di aver trovato l’amore dovremmo chiederci, quale mio bisogno soddisfa? E se non riusciamo a trovare nessuna risposta, forse siamo davanti all’amore vero.
L’altra domanda è cosa è la gelosia? E anche qui prendo in prestito la spiegazione che la Bibbia da della gelosia.
In più passi, Dio viene definito come un Dio geloso, ma di quale gelosia si parla visto l’atteggiamento di Dio in tutto il resto della Bibbia?
Di quella gelosia che custodisce l’amata/o, che protegge, che vuole il bene dell’amato/a, tanto che se il bene dell’amato/a è stare lontano Lui lascia la libertà di allontanarsi, perché l’amore non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira…
Mi sembra che sempre più Amore e Gelosia, in senso teologico e profondo, siano sentimenti provati verso gli oggetti che fanno parte della nostra vita, mentre verso le persone “amate” si sviluppi un senso di possesso e sottomissione.
Se ti possiedo, posso fare di te quello che voglio, sono nella posizione di fare di te quello che voglio e come voglio, la tua vita è nelle mie mani.
Gli interventi legislativi sono rivolti, solo verso la delicata parte della vittima, giustamente, senza porre interventi incisivi e rieducativi del carnefice (sì rieducativi, da teologo e psicologo non posso che essere fiducioso e possibilista nei confronti delle persone). Carnefice che vive un proprio e vero inferno interiore, sotterrato da mille paure, a poco servono case di accoglienza o ingiunzioni di allontanamento, e su questo la storia e gli eventi continui c’è ne portano una prova. Forse oltre alle tanto utili e indispensabili case rifugio, avremmo bisogno anche di case di accoglienza per chi vive il lutto dell’abbandono, e solo non riesce a superarlo, per chi si sente sconfitto dalla paura della solitudine, per chi trasforma la rabbia per… in violenza verso, per chi… e la lista sarebbe molto lunga.
Altro aspetto importante da valutare secondo me, è l’effetto Werther, la divulgazione a livello giornalistico di tali notizie porta con sé l’effetto domino in senso negativo, mi chiedo quanto l’informazione di femminicidio infonde coraggio nella vittima nel chiedere aiuto. Tale effetto è stato preso in considerazione in altri ambiti, mettendo in atto degli interventi che hanno portato concreti miglioramenti.
Forse se si intervenisse nelle scuole con un insegnamento ai sentimenti, al riconoscimento di questi, al valore della vita, prendendo contatto con il naturale fluire degli eventi, aiutando i giovani nell’elaborazione che tutto inizia e tutto finisce e quindi alla elaborazione del lutto, si favorirebbe il rispetto della vita dell’altro e della propria.
Le riflessioni del nostro responsabile area psicologica Dott. Marco Magliozzi
Una tragedia che poteva essere evitata e che racconta l’ennesima inefficienza dei servizi di prevenzione.
Ma andiamo con ordine.
I due si erano conosciuti un anno fa e avevano cominciato a frequentarsi. Fin da subito, purtroppo, Giovanni aveva dato chiari segni di squilibrio emotivo, manifestando iper gelosia e iper controllo sulla compagna.
In svariate occasioni, l’uomo avrebbe anche lanciato piatti e bicchieri, urlato contro la donna e addirittura la perseguitava, passando molte ore sotto la sua abitazione.
Ormai esasperata, Alessandra il 29 luglio ha sporto denuncia, denuncia che però non ha mai sortito reali effetti. La procura ha infatti aperto un fascicolo, ma nei confronti dell’uomo non sono mai stati adottati provvedimenti restrittivi. I carabinieri stavano preparando un’informativa per i magistrati, ma aspettavano di completarla interrogando testimoni che erano in ferie.
Un vero e proprio caso di sottovalutazione del pericolo.
Dopo circa un mese, difatti, la tragedia. Alessandra è morta e tutto questo potevamo impedirlo.
Secondo i dati aggiornati nel mese di giugno 2022, in Italia sono stati già commessi ben 51 femminicidi.
Molti di questi, probabilmente, avrebbero potuto essere evitati, se si fosse dato ascolto con più attenzione alle voci delle vittime, dei familiari, degli amici, che già da mesi, settimane, giorni, si erano appellati alle forze dell’ordine e ai servizi sociali.
L’assurdità, a nostro parere, è che ci si attivi solo quando sussistano reali violenze fisiche e mai, o quasi mai, quando iniziano a mostrarsi le prime avvisaglie. Non esiste solo una forma di violenza corporea, ma anche psicologica: esiste lo stalking, esistono gli appostamenti, le urla, i rimproveri, la gelosia patologica. Tutte manifestazioni che, nel tempo, possono trasformarsi in qualcosa di tragico, come è avvenuto con Alessandra.
Perché dunque aspettare che ci sia una violenza fisica prima di intervenire? Questa è la domanda che ci poniamo come Associazione.
“Fermiconlemani”, nel suo piccolo, cerca di inviare a gran voce il messaggio di quanto sia necessario fare prevenzione, di quanto sia necessario denunciare, senza attendere neppure un minuto, al primo indizio di violenza. Le persone non cambiano magicamente, non migliorano solo perché lo promettono in ginocchio. Se esiste un malessere profondo, un disagio psicologico ed emotivo, questo va affrontato con dei professionisti, in modo tale che questi papabili autori di violenza possano fin da subito essere aiutati.
Inoltre, e non meno importante, bisogna infondere coraggio a tutte le donne che hanno paura di denunciare e di parlare, per timore di rappresaglie di qualsivoglia genere da parte dei compagni.
Meglio affrontare la paura, che gettarsi tra le braccia della morte.
Crudo a dirsi, ma la realtà è peggiore di quanto la si immagini. Solo con vere iniziative di prevenzione e sensibilizzazione è possibile inviare questi importantissimi messaggi.
L’essere umano, ahimè, è restio a imparare dall’esperienza. Non bastano decine e decine di femminicidi ogni anno per comprendere quanto la soluzione non sia nella punizione degli autori ma nella formazione emotiva ed educativa dei nostri ragazzi, futuri uomini, che possono crescere imparando valori quali il rispetto, l’amore reciproco e puro, la parità dei sessi, una comunicazione sana.
Il lavoro va fatto nelle scuole, nelle famiglie, nei centri di aggregazione e solo per ultimo nelle carceri.
Dott. Marco Magliozzi
Psicologo, Psicoterapeuta, esperto in PNL Bioetica
In particolare Revenge PornPornografia non consensuale– Non Consensual Pornography (NCP).
Interessante approfondimento a cura della presidentessa Avv.ta Tiziana Cecere
La rapida e ampissima diffusione dell’uso dei social media, unitamente all’attuale tzunami di violenza nei confronti delle donne e delle ragazze ha fatto proliferare “la VAWG”: la violenza virtuale contro le donne e le ragazze che ha assunto a livello globale dimensioni mastodontiche producendo ripercussioni sia nei confronti delle vittime che nel substrato economico e sociale.
E’ stato rilevato, su scala mondiale, che una donna su dieci abbia già subito una forma di violenza virtuale, sin dall’età di 15 anni, nello spazio pubblico digitale che senza un utilizzo consapevole può divenire “un luogo pericoloso” .
Purtroppo, si tarda ancora a concettualizzare e a disciplinare in modo efficace e uniforme nell’Unione Europea (UE) la violenza virtuale contro le donne e le ragazze tanto che anche la ricerca condotta a livello nazionale negli Stati membri dell’UE è limitata. I dati della VAWG nell’UE sono scarsi e, di conseguenza, si sa molto poco sulla reale percentuale di vittime di violenza virtuale contro le donne e le ragazze e sulla portata dei danni poichè nella maggior parte degli Stati membri le forme di VAWG virtuale non sono considerate reato. I dati della polizia e della giustizia penale sul fenomeno sono irrisori e pur se negli Stati membri in cui le forme di VAWG virtuale costituiscono un reato, i dati raccolti mancano di organizzazione per sesso della vittima e autore del reato e del rapporto fra loro.
E’ interessante riportare i dati di un’indagine che ha coinvolto più di 9 000 utenti di Internet, di nazionalità tedesca, di età compresa tra 10 e 50 anni, da cui e’ emerso che le donne erano notevolmente più suscettibili e pativano situazioni piu’ traumatiche rispetto agli uomini nell’ essere vittime di molestie sessuali online e di comportamenti persecutori perpetrati attraverso mezzi informatici (cyberstalking).
Questo risultato è corroborato da un’indagine del 2014 condotta dal Pew Research Center negli Stati Uniti (le donne -in particolare le giovani della fascia di età di 18-24 anni) subiscono in misura sproporzionata diversi tipi di molestie virtuali, in particolare cyberstalking e molestie sessuali online.
Ad esempio, il cyberstalking perpetrato da un partner o un ex partner segue gli stessi modelli dello stalking off line ed è quindi una violenza perpetrata da un offender, facilitata dalla tecnologia, quale preludio spesso ad azioni criminali violente di persona.
Tale “continuita’ “ e’ stata confermata da uno studio britannico sul cyberstalking da cui e’ emerso che oltre la metà (54 %) dei casi di violenza on line era correlata a un primo incontro in una situazione reale.
Inoltre, i dati dell’indagine della FRA del 2014 mostrano che il 77 % delle donne che hanno subito molestie online hanno subito almeno una forma di violenza sessuale e/o fisica da un partner intimo, e 7 donne su 10 (70 %) che hanno subito cyberstalking sono anche state vittima di almeno una forma di violenza fisica e/o sessuale perpetrata da un offender conosciuto o ex partner.
Le forme di violenza virtuale contro le donne e le ragazze sono numerose ed e’ importante parlarne per conoscerle e poter mettere in atto tutte le azioni necessarie per prevenirle e per tutelare i propri diritti nel caso si assuma spiacevolmente la veste di vittime.
Il cyberstalking, pornografia non consensuale (o «pornografia della vendetta» o “revenge porn”), offese e molestie basate sul genere, stigmatizzazione a sfondo sessuale, pornografia indesiderata, estorsione sessuale, stupro e minacce di morte, ricerca e pubblicazione online di informazioni personali e private (doxing), e traffico di esseri umani perpetrato per via elettronica.
Non devono essere sottovalutate le varie forme di manifestazione e conseguenze della violenza nel cyberspazio, rispetto a quella off line, fra cui violenza sessuale, psicologica e violenza economica, in cui l’attuale o futura occupazione lavorativa della vittima è compromessa da informazioni pubblicate online.
Ci soffermiamo su una forma di violenza che finalmente in Italia dal 2019 e’ stata tipizzata in un reato: Revenge PornPornografia non consensuale – Non Consensual Pornography (NCP).
Tale forma di VAWG e’ conosciuta con il termine di revenge porn o sfruttamento online o «pornografia della vendetta», la pornografia non consensuale comporta la distribuzione online di fotografie o di video di sesso senza il consenso della persona ripresa.
La dinamica del revenge porn e’ piu’ diffuso di quanto possiamo immaginare.
Nel 2017, un’analisi del C.C.R.I. (Cyber Civil Rights Initiative) ha documentato che tra gli utenti di social media statunitensi uno su otto è stato vittima di revenge porn, prendendo in esame 3.044 individui.
L’8% è risultato vittima della pubblicazione non consensuale di materiali pornografici, denominata in breve “NCP”. E circa il 5,2% dei partecipanti ha ammesso di aver perpetrato la NCP. Inoltre, dallo studio è emerso che le donne hanno 1,7 volte più probabilità di essere vittime di NCP rispetto agli uomini.
Nel 2016, uno studio del “Data & Society Research Institute” ha rilevato che circa 10 milioni di americani sono stati vittime di NCP o sono stati minacciati di tale reato.
L’esecutore è spesso un ex partner che ottiene le immagini o i video nel corso di una precedente relazione, e mira a infamare e umiliare pubblicamente la vittima quale vendetta e ritorsione per la fine della relazione.
Comunque sia, gli offenders possono anche non essere partner o ex partner ma la motivazione alla base dei comportamenti criminali di questo reato e’ sempre la vendetta.
In alcuni casi, la persona offesa (uomo o donna) è vittima di violenza sessuale, spesso facilitata dalla droga da stupro che provoca, tra l’altro, ridotto senso del dolore, coinvolgimento nel disvoluto atto sessuale, effetti dissociativi e amnesia. Queste azioni criminali, ci duole riferirlo, sono diffuse anche tra i minori come la diffusa pratica del sexting, ovvero dell’invio di immagini intime come pratica di coppia: sovente tali immagini vengono diffuse a soggetti esterni alla coppia (il c.d. sexting secondario) andando a determinare situazioni dannose alle vittime analoghe a quelle prodotte dal revenge porn.
Le immagini possono essere ottenute anche memorizzando e utilizzando le foto dai profili dei social media o dal cellulare della vittima, e possono mirare a infliggere un danno nella vita «del mondo reale» delle persone offese (ad esempio facendoli licenziare dal lavoro).
Negli ultimi anni sono stati pubblicizzati diversi casi di donne vittime di vendetta pornografica non solo negli Stati membri dell’UE e negli Stati Uniti d’America, ma anche in Italia, le cui conseguenze sono state il suicidio delle vittime.
Infatti, solo in seguito al suicidio di Tiziana Cantone, nel nostro Paese, fu presentato un disegno di legge che mirava a introdurre l’art. 612-ter nel codice penale , “concernente il reato di diffusione di immagini e video sessualmente espliciti”.
Assistiamo ad un aumento di siti Internet dedicati alla condivisione della pornografia della vendetta, tramite cui gli utenti possono pubblicare immagini e informazioni personali quali indirizzo, datore di lavoro e collegamenti ai profili online della vittima.
L’utilizzo incontrollato dei social media ha prodotto anche un’orribile tendenza, quella della trasmissione dal vivo di atti di aggressione sessuale e stupro attraverso i social media tanto e’ vero che, nel 2017, purtroppo vi sono già stati due casi di grande risonanza pubblica, uno in Svezia e l’altro negli Stati Uniti d’America, di vittime il cui stupro è stato trasmesso in diretta online usando la funzione di Facebook.
In pochissimi paesi nel mondo quali Italia, Australia, Canada, Filippine, Giappone, Israele, Malta, Regno Uniti e alcuni stati degli U.S.A. esiste attualmente una legislazione specifica.
In Italia sono stati fatti dei grandi passi introducendo la fattispecie del revenge porn, l’articolo 612 ter del codice penale rubricato “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti” con l’entrata in vigore del “codice rosso” il 9.8.2019,ma certamente c’e’ molta strada da percorrere in merito alla prevenzione tra le più giovani.A livello europeo sarebbe determinante migliorare i dati disaggregati sulla diffusione e sui danni della violenza virtuale contro le donne e le ragazze, per poter sviluppare indicatori e permisurare l’efficacia degli interventi cosi’ da mettere in atto azioni condivise negli Stati Membri contro le numerose forme di criminalità virtuale basate sul genere in particolare l’adescamento o «reclutamento» online di donne e ragazze in situazioni dannose come il traffico di esseri umani.
Avv. Tiziana Cecere
Criminologa
Coach e Conselour Bioetica
Master in PNL Bioetica
Esperta in Crimini Violenti, Violenza on line e off line, Dinamiche Settarie, Satanismo
Ideatrice del Metodo “Rinascere Danzando” e del Progetto “Cassetta Help”
Consulente di parte per:
supporto in indagini difensive, ricostruzione criminodinamica degli eventi, preparazione interrogatori,
analisi della testimonianza, ricostruzione del fatto criminoso.
Psicologo-psicoterapeuta, esperto in criminologia, PNL e EMDR
Socio fondatore di “Fermiconlemani”
Qualche giorno fa, in una RSA di Manfredonia in provincia di Foggia, quattro operatori socio-sanitari sono stati arrestati dalla Polizia con l’accusa di aver agito violenze fisiche e sessuali ai danni di alcuni anziani ospiti della struttura.
Ogniqualvolta leggiamo tali notizie, che vedono coinvolte persone innocenti e indifese, il nostro animo sobbalza e ci chiediamo come possano accadere tali tragedie.
Uno degli obiettivi dell’Associazione “Fermiconlemani” è quello di sensibilizzare i cittadini tutti sul tema della violenza, in ogni sua forma.
Questo articolo, nello specifico, non si pone come scopo quello di condannare o moralizzare sugli eventi accaduti (altri esperti si occuperanno, nel rispetto dei loro ruoli, di ottemperare a ciò), ma di fare un’analisi, il più possibile professionale e oggettiva, di tali dinamiche, così da offrire al lettore una visione dei fatti scientifica e scevra da condizionamenti.
Partiamo da una “semplice domanda”: l’essere umano è una creatura violenta per natura?
Antropologia, medicina, filosofia, psicologia, genetica, le scienze tutte, da secoli si domandano se l’essere umano possa racchiudere in sé istinti di violenza e aggressività.
Ahimè, la risposta è ormai certa: appartenendo alla classe animalia dei mammiferi prima che al genere homo sapiens, l’essere umano è capace, per sua natura, di agire violenza, di essere aggressivo, anche contro i propri simili e anche senza un “apparente” motivo. Considerando i numerosissimi casi di cronaca nera accaduti negli anni, non c’è più da meravigliarsi quando leggiamo o ascoltiamo notizie di tal genere.
Il meccanismo della sublimazione
L’essere umano, come detto, ha il naturale bisogno di esternare i propri istinti violenti e aggressivi. Grazie alla sua evoluzione, ha però imparato a gestirli e manifestarli in una maniera socialmente accettata, innocua e condivisa. Tale dinamica prende appunto il nome di sublimazione.
Alcuni esempi possono essere: l’attività sportiva, l’arte, l’impegno sociale o politico, la motivazione professionale e così via.
Talvolta, purtroppo, a causa delle eccessive frustrazioni e di alcune fragilità dell’Io, tali impulsi prendono il sopravvento e la persona non riesce a indirizzarli verso un qualcosa di opportuno.
Ecco che, ahimè, si manifestano violenze verso altre persone, molte volte del tutto innocenti e inconsapevoli di quello che sta accadendo.
La violenza è, molto spesso, conseguenza di un’infelicità interiore
Una persona equilibrata, mentalmente sana e appagata, gode del pieno funzionamento delle sue facoltà cognitive e dei propri meccanismi inconsci di difesa. È in grado, dunque, di gestire al meglio gli istinti primordiali (di cui sopra) e agire a favore del proprio bene e del bene comune.
La violenza agita (verbalmente o psicologicamente) è spesso conseguenza di un malessere interiore e di crepe strutturali nell’Io. Tali fragilità sono frutto di traumi, dell’educazione ricevuta, della cultura di appartenenza e del modo in cui l’individuo ha strutturato le proprie reazioni di difesa.
Qualsiasi spiegazione psicologica non servirà mai per giustificare tali comportamenti violenti, nei confronti di persone innocenti e indifese. È giusto che gli autori di questi reati vengano sottoposti a processo e, se colpevoli, condannati secondo le leggi vigenti.
È giusto però permettere ai lettori di comprendere cosa spinga, inconsciamente, alcune persone a compiere tali atti deprecabili.
Gli operatori socio-sanitari, che si sono macchiati di queste violenze, molto probabilmente non godevano di una lucidità mentale, di un equilibrio sano tra conscio e istinti inconsci, di un sereno appagamento psico-emotivo (e sessuale), qualità indispensabili per poter essere a contatto con persone bisognose di cure e attenzione, come un anziano.
Il nostro monito, come Associazione, è quello di prevenire ogni genere di violenza e richiamare all’attenzione dei più questi accadimenti, con lo scopo di sensibilizzare e far sì che, per il futuro, ciò non debba più verificarsi.
Come? Assicurandosi della qualità, della formazione e dell’equilibrio psico-emotivo degli operatori socio-sanitari.
Bisogna dunque evitare, il più possibile, che questi operatori finiscano sotto stress, in burn-out o che vengano assegnati ruoli che richiedono empatia, amore per il prossimo e dedizione a persone non in grado di ottemperare tali qualità e magari a rischio crollo emotivo.
È necessario che gli operatori vengano valutati non solo da un punto di vista curriculare ma anche psicologico, che seguano degli specifici corsi di formazione e che vengano supportati psicologicamente da esperti esterni, così da monitorare costantemente il loro benessere.
Solo con la prevenzione è possibile far diminuire i casi di violenza.
Riflessione del nostro socio Prof. Pierfrancesco Impedovo
Il brutale assassinio dell’ambulante nigeriano a Civitanova Marche non ha giustificazioni e ci impone, ancora una volta, riflessioni attente su di noi e la società in cui viviamo.
Spetta naturalmente agli inquirenti ricostruire l’esatta dinamica di quanto accaduto. Sappiamo solo che Alika Ogorchukwu, 39 anni, venditore ambulante, è stato ferocemente aggredito e ucciso da Filippo Ferlazzo, 32 anni, salernitano d’origine, di passeggio con la sua compagna. Fermato e arrestato poco dopo delle forze dell’ordine, Ferlazzo avrebbe dichiarato che il motivo dell’aggressione sarebbero stati alcuni apprezzamenti fatti dalla vittima alla sua donna.
A noi interessa il dato sociologico sconcertante che emerge da questo episodio: nessuno dei numerosi presenti sulla scena è intervenuto per impedire che Filippo Ferlazzo uccidesse Alika Ogorchukwu. Nessuno!
La reazione istintuale è stata piuttosto impugnare lo smartphone e riprendere la scena. L’obbiettivo dello smartphone ha dunque “smaterializzato” la realtà, inserendo una sorta di filtro tra spettatori e protagonisti di quella violenza senza senso.
Viene da pensare, nella più ottimista delle ipotesi, che non abbiano saputo valutare in maniera lucida quelle che potevano essere le conseguenze di un’aggressione che, magari, sarebbe rimasta uno “spettacolino” immortalato in uno di quei tanti video “fai da te” che stanno ormai diventando una sorta di realtà parallela che non prevede conseguenze. Solo immagini.
Questa tragedia ci restituisce l’esatta misura di quello che stiamo diventando: una società non più civile, ma di monadi, nella quale un uomo in pericolo è lasciato a sé stesso e al suo destino perché abbiamo perso la capacità di sentirci noi stessi quell’uomo, e quindi di agire di conseguenza per proteggerlo. Ma anche una società dello spettacolo, per citare il titolo di un testo del 1967 del filosofo Guy Debord, evidentemente profetico.
Una società nella quale la morte di un uomo non ci riguarda nemmeno se avviene sotto i nostri occhi, perché la prima reazione che mettiamo in atto è prenderne le distanze filmandola come se fosse un macabro show, in una sorta di meccanismo di alienazione “protettiva”. La perdita della tensione morale ad aiutare chi è in difficoltà, ci ha privati del nostro status di “umani”.
Qui non c’entrano il razzismo e la politica invocati dalla solita retorica mediatica. Ma c’entra invece molto il compimento di un atavico percorso di alienazione sociale al quale hanno senza dubbio contribuito anche i media, in un’orgia di immagini che raffigurano la violenza in ogni sua forma e il cui drammatico effetto è di neutralizzare ogni sentimento di umanità, conducendo ad una barbarie nuova e spaventosa: l’indifferenza. E questo vale per l’omicida, tanto quanto per coloro che non hanno ritenuto di doverlo fermare.
Continuamente esposti alla violenza e alla sua rappresentazione, stiamo finendo per abituarci a considerarla un fatto normale, un fenomeno che come un altro può accadere.
In una società dove tutto deve apparire per esistere, spettacolarizzare la violenza equivale a banalizzarla, così come trattare femminicidi, stupri e omicidi nel grande circo mediatico dei salotti tv del pomeriggio, inseriti a caso tra foto di VIP in vacanza e consigli per gli acquisti, equivale a fare della violenza un prodotto come un altro, che si vende e fa vendere.
La violenza rappresentata in modo spettacolare, sgargiante, quasi accattivante, sta finendo per compromettere la capacità di mantenere saldo il senso di realtà: non vi è infatti alcun dubbio che i presenti avrebbero potuto bloccare Filippo Ferlazzo, anche solo per la loro superiorità numerica, impedendo così la morte di un uomo.
Ma questo non è avvenuto, e dobbiamo chiederci quanto una percezione alterata della realtà, dovuta anche ad una narrazione ormai miserabile nei valori, abbia contribuito a far sì che nessuno abbia avuto l’istinto di impedire che un uomo morisse, per futilissimi motivi, in una via dello shopping davanti a decine di “spettatori”.
L’indifferenza continua ad essere il più frequente e macabro degli spettacoli di questo agglomerato umano che ci si ostina ancora a chiamare “società”, sempre più social e sempre meno sociale.
Ce ne parla il nostro socio Prof. Pierfrancesco Impedovo
Marco e Gabriele Bianchi colpevoli e condannati – in primo grado- all’ergastolo, per l’uccisione a calci e pugni di Willy Monteiro Duarte: questa la risposta dello Stato ad un atto di spaventosa, immotivata e incomprensibile brutalità.
È una vicenda che entra dentro ogni coscienza, un groviglio di ragione e sentimento che scompagina ogni certezza: apre le porte dell’istinto, nutrendo l’efferatezza inconsapevole (o, forse, troppo consapevole) del senso di vendetta. Siamo umani, del resto.
Un processo che ha avuto intorno a sé una attenzione spasmodica, anche perché tutto il Paese ha voluto essere accanto alla famiglia della giovanissima vittima, riconoscendone la dignità con cui ha affrontato una prova durissima. E anche le poche parole pronunciate dai genitori, dopo avere sentito il verdetto, sono state improntate a compostezza, sottolineando che la sentenza – giusta – non può certo colmare lo spaventoso vuoto lasciato dalla morte di Willy.
Per questo, sarebbe facile (e, in effetti, per molti lo è) sostenere che – in vicende come queste, nessuno avrebbe il diritto di invocare il diritto, perché a dolore deve corrispondere sempre dolore.
Ma è esattamente qui e adesso che si crea lo spartiacque: fuori o dentro il sistema penale.
È la diatriba degli opposti, la prova più dura: garantire la vittima e garantire il (presunto) reo. Che cos’è tutto ciò, se non il sacro dilemma del giusto processo?
Se il processo ha dimostrato, senza nemmeno l’ombra del dubbio, che i due fratelli hanno ucciso Willy, meritando la condanna, loro e dei due amici che li hanno fiancheggiati (Francesco Belleggia e Marco Piancarelli), bisogna anche ammettere che sui media la sentenza era stata già emessa.
Riproponendo ad ogni occasione, l’immagine da fanfaroni, e certamente violenti, di Marco e Gabriele Bianchi, l’opinione pubblica è stata portata per mano verso un giudizio di scontata colpevolezza, perché i due fratelli ”non potevano essere innocenti”.
Perché due giovani di cui si vedevano le stesse immagini, lo stesso ghigno, la stessa palese sfrontatezza, avevano già impressa sulla fronte e non sul petto – come la Hester descritta da Nathaniel Hawthorne – la ‘lettera scarlatta’ dell’infamia prima ancora della sentenza.
Il processo è un percorso impervio di uomini e di fatti, alla fine del quale si dovrebbe sublimare il più alto concetto del nostro patto sociale: la giustizia.
La pena afflittiva in sé, che dimentica la rieducazione e degrada a gogna mediatica, non può farne parte: quella è una giustizia estemporanea che non rispetta nessuno, che si chiami Abele o Caino non fa differenza.
Qui – è bene sottolinearlo per sgombrare il campo da ogni equivoco- non si sta affermando che il procedimento non sia stato condotto con equilibrio o correttezza, ma solo che il verdetto della gente è stato emesso ben prima della sentenza, perché altrimenti non poteva essere.
Per questo i giudici dovrebbero potersi estraniare da quello che esce dallo stretto perimetro del processo, ma sappiamo bene che così non è e quando il difensore dei fratelli Bianchi parla di un condizionamento mediatico dice cosa che tutti sanno, anche se in pochi lo ammetteranno mai.
Il (parallelo) processo mass-mediatico non ha solo una cifra culturale, ma allunga i suoi tentacoli sui diritti fondamentali e sul giusto processo.