Quell’accorato appello del vicario di Cristo al rispetto delle donne.

Il Prof. Michele Colasuonno, nostro responsabile dell’area psicologica, psicologo e teologo, riflette sul senso profondo del pesante monito del Sommo Pontefice contro la dilagante spirale di violenza ai danni delle donne.

Ogni società ha bisogno di accogliere il dono della donna, di ogni donna: di rispettarla, custodirla, valorizzarla, sapendo che chi ferisce una sola donna profana Dio, nato da donna.

Come teologo ancor prima che come psicologo, e socio dell’associazione FERMICONLEMANI, le parole pronunciate da papa Francesco, nell’omelia del 1 gennaio 2024, solennità della madre di Dio,  hanno lasciato un segno e un sapore amaro nel costatare che ancora oggi, nel 2024, in una società che si professa civilizzata, ci sia ancora bisogno di pronunciarli da parte di un papa (e da parte del presidente della repubblica Italiana, visto l’intervento anche da parte di Mattarella sullo stesso tema).

Ma le parole e parole del genere, sono semi, e come ogni seme ha bisogno di tempo per poter germogliare, in queste piccole considerazioni.

Sono due i punti, a mio avviso cruciali, dell’omelia, sulle quali vorrei porre l’attenzione, il primo:

“… Nella pienezza del tempo il Padre mandò il suo Figlio nato da donna; ma il testo di San Paolo aggiunge un secondo invio: «Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!”» (Gal 4,6). E anche nell’invio dello Spirito la Madre è protagonista: lo Spirito Santo comincia a posarsi su di lei nell’Annunciazione (cfr Lc 1,35), poi agli inizi della Chiesa discende sugli Apostoli riuniti in preghiera «con Maria, la Madre» (At 1,14). Così l’accoglienza di Maria ci ha portato i doni più grandi: lei ha «reso nostro fratello il Signore della maestà» (Tommaso da Celano, Vita seconda, CL, 198: FF 786) e ha permesso allo Spirito di gridare nei nostri cuori: “Abbà, Papà!”. La maternità di Maria è la via per incontrare la tenerezza paterna di Dio, la via più vicina, più diretta, più facile. Questo è lo stile di Dio: vicinanza, compassione e tenerezza. La Madre, infatti, ci conduce all’inizio e al cuore della fede, che non è una teoria o un impegno, ma un dono immenso, che ci fa figli amati, dimore dell’amore del Padre. Perciò accogliere nella propria vita la Madre non è una scelta di devozione, ma è un’esigenza di fede: «Se vogliamo essere cristiani, dobbiamo essere mariani» (S. Paolo VI, Omelia a Cagliari, 24 aprile 1970), cioè figli di Maria.”

Sè è vero che Grazie a Maria ci è stato permesso di essere Figli di Dio, e chiamare Dio Padre, ed essere Fratelli del Dio Figlio Gesù, è vero che ogni uomo deve ringraziare incessantemente una donna per la vita, è vero che per la generazione della vita abbiamo bisogno di un uomo e di una donna, ma la donna mamma permette il miracolo della vita, da due cellule, curate, custodite, coccolate, abbiamo la vita di ogni persona, abbiamo il miracolo davanti al quale lo stesso Creatore esclama “È cosa molto buona, è cosa meravigliosa” Gen. 1,31. È la donna mamma che per prima ci avvolge nelle sue braccia amorose, e che ci dona all’uomo padre perché il miracolo della crescita possa continuare come sottolinea Jacques Lacan.

 Secondo:

“Di Maria la Chiesa ha bisogno per riscoprire il proprio volto femminile: per assomigliare maggiormente a lei che, donna, Vergine e Madre, ne rappresenta il modello e la figura perfetta (cfr Lumen gentium, 63); per fare spazio alle donne ed essere generativa attraverso una pastorale fatta di cura e di sollecitudine, di pazienza e di coraggio materno. Ma anche il mondo ha bisogno di guardare alle madri e alle donne per trovare la pace, per uscire dalle spirali della violenza e dell’odio, e tornare ad avere sguardi umani e cuori che vedono. E ogni società ha bisogno di accogliere il dono della donna, di ogni donna: di rispettarla, custodirla, valorizzarla, sapendo che chi ferisce una sola donna profana Dio, nato da donna.”

Trovo poetiche e profetiche queste parole, urgenti come ogni respiro, dolci come il miele ma taglienti come una lama, sì abbiamo bisogno di riscoprire in ognuno di noi il volto femminile, quel femminile che più e prima di ogni altro femminile può spaventare in un mondo dove vince il più forte e mette fuori con le unghie e con i denti la forza e la violenza, più che l’accoglienza e la pazienza. William Sloane Coffin scrive:  “La donna che più deve essere liberata è la donna che vive in ogni uomo”. 

Jung definisce l’animus come il lato maschile di una donna, e l’anima come il lato femminile di un uomo proiettati inconsciamente sulle persone dell’altro sesso, passaggio essenziale per riconoscere e conoscersi il proprio e l’altrui valore, in fondo la prima vittima del carnefice spessissimo è il carnefice stesso con le sue paure e le proprie zone d’ombra.

Concludo con un passo del Talmud che ben sintetizza quanto detto fin ora, e amplia all’infinito del respiro della Sapienza:

“La donna è uscita dalla costola dell’uomo,
non dai piedi perchè dovesse essere calpestata (sottomessa),
né dalla testa per essere superiore (per dominarlo),
ma dal fianco per essere uguale (al suo fianco).
un po’ più in basso del braccio per essere protetta
e dal lato del cuore per essere amata.”

Michele Colasuonno

Giulia è morta. Uccisa di chi diceva di amrla.

Ieri si sarebbe laureata e invece giaceva sul fondo di un lago morta ammazzata.

Giulia Cecchettin è morta. È stato trovato ieri il corpo della 22enne sparita da una settimana insieme all’ex fidanzato, Filippo Turetta, ricercato e indagato per omicidio. Il cadavere della ragazza era nei pressi del lago di Barcis, in provincia di Pordenone, con addosso i vestiti che aveva al momento della scomparsa una settimana fa. 

Secondo la ricostruzione fatta dalla polizia, Filippo l’ha abbandonata al bordo della strada e l’ha lasciata rotolare lungo un dirupo per una cinquantina di metri, fino a quando il corpo di Giulia si è fermato in un canalone. 

Su Turetta pende un mandato d’arresto europeo firmato dalla Procura di Venezia. Ora si cerca l’auto, che è stata avvistata l’ultima volta a Linz (Austria), in Tirolo, domenica – e non mercoledì come era stato precedentemente detto. 

Giulia è la 105esima donna ad essere uccisa nel 2023. Filippo, il suo assassino, è stato definito da più parti “il classico bravo ragazzo”.

Un fenomeno complesso e multidimensionale che va sotto il nome di “teen dating violence” (TDV), una sigla per indicare fenomeni di violenza e/o molestia nelle relazioni sentimentali tra adolescenti si sta diffondendo ampiamente anche in Italia. La TDV comprende qualsiasi forma di abuso, sia fisico sia emotivo o sessuale, che si verifica in una relazione romantica durante l’adolescenza.

Studi recenti hanno esplorato la TDV applicando a una ricerca condotta su adolescenti il concetto di sessismo ambivalente, concetto già indagato per il tema più generale della violenza di genere tra gli adulti. Che cos’è lo diciamo parlando delle due forme principali – ecco perché si chiama ambivalente – con cui si manifesta e viene indagato: il sessismo ostile e il sessismo benevolo.

Il sessismo ostile è caratterizzato da atteggiamenti negativi e apertamente aggressivi nei confronti delle donne. Include le credenze che le donne siano inferiori agli uomini, che abbiano intenzioni manipolatrici o che siano in qualche modo meno capaci. Questo tipo di sessismo è più diretto e facilmente riconoscibile come discriminatorio. Il sessismo benevolo è più subdolo e mascherato da atteggiamenti positivi, si basa su idee stereotipate di protezione, idealizzazione e romantizzazione delle donne. Questa forma può sembrare lusinghiera in superficie, ma in realtà è persino più grave di quello ostile, in quanto di fatto perpetua la dipendenza e l’inferiorità delle donne, posizionandole in ruoli tradizionali e limitativi, e agisce potentemente sulle ragazze stesse.

Gli studi hanno mostrato come entrambe le forme di sessismo hanno un impatto significativo sul comportamento e le percezioni degli adolescenti. In particolare: gli adolescenti maschi possono essere maggiormente influenzati dal sessismo ostile. Questo può portare a giustificare comportamenti di controllo o aggressivi nei confronti delle ragazze, vedendo le relazioni attraverso una lente di potere e dominio. Il sessismo ostile può anche condurre alla normalizzazione della violenza e a un’errata interpretazione del consenso nelle relazioni romantiche. Dall’altro lato, per le ragazze, il sessismo benevolo può essere più insidioso. Esso può influenzare la loro autopercezione e il modo in cui accettano il trattamento da parte dei partner maschili. Le ragazze possono arrivare a giustificare comportamenti controllanti o limitativi come segni di “cura” o “attenzione”, accettando e normalizzando così dinamiche relazionali sbilanciate.

Capite bene come la conoscenza del fenomeno è cruciale per qualunque tipo di intervento che voglia affrontare la violenza di genere tra gli adolescenti. Ciò implica un lavoro specifico nell’educare i giovani all’uguaglianza di genere, al rispetto reciproco e alla costruzione di relazioni basate su principi di consenso e parità.

Da anni la nostra associazione sperimenta sul campo l’efficacia di interventi educativi mirati a contrastare il sessismo tra gli adolescenti, sperimentando come i programmi scolastici e specifiche metodologie educative possano svolgere un ruolo chiave nella prevenzione e nel contrasto della violenza e degli stereotipi di genere.

Molti adolescenti sono regolarmente esposti a varie forme di violenza di genere, sia fisica che virtuale. Tuttavia, uno degli aspetti più preoccupanti è la difficoltà che questi incontrano nel riconoscere la violenza di genere come tale, in un’età in cui le relazioni interpersonali iniziano a diventare più complesse. Inoltre, gli stereotipi di genere radicati e le norme sociali possono offuscare la percezione di ciò che è accettabile e ciò che non lo è in una relazione, conducendo a una normalizzazione di comportamenti che, in realtà, sono abusivi o discriminatori.

È dunque essenziale che le scuole, le famiglie e le comunità lavorino insieme per fornire ai giovani le competenze e le conoscenze necessarie per identificare e contrastare la violenza di genere. Questo implica non solo l’educazione sui diversi tipi di violenza e sui loro segnali di allarme, ma anche la promozione di un dialogo aperto e onesto sul rispetto reciproco, sul consenso e sulle relazioni sane, sempre che le scuole, le famiglie e le comunità siano preparate a farlo; e qui entra in campo la necessità di formare e informare gli adulti di riferimento, soprattutto gli educatori, sui temi di cui stiamo trattando.

Fermiconlemani continuerà instancabilmente a battersi affinché vi sia un’attenzione più profonda e strutturale su questi aspetti, che raccolga le indicazioni normative europee, attraverso azioni educative e di prevenzione che vadano oltre la stupida e insostenibile vulgata “no gender o si gender” che ormai è una caricatura a uso di una popolazione per lo più disinformata, compresi gli operatori del settore.

Lo dobbiamo a Giulia Cecchettin, che ieri si sarebbe laureata e invece giaceva nel fondo di un lago morta ammazzata, lo dobbiamo a tutte le donne oggetto di violenza, lo dobbiamo affinché non accada più -e non è un’utopia-, ma lo dobbiamo anche ai Filippo Turretta -che sarà condannato e sconterà la sua pena-, affinché ve ne siano sempre meno.

Le cose possono, potevano e potrebbero andare diversamente se tutti assieme decidessimo di costruire una società differente.

Possiamo anche credere che Turretta sia un tipo tranquillo e non violento, come sostengono i suoi genitori, ma non c’entra nulla con quel che è accaduto, perché la violenza di genere investe meccanismi profondi, meccanismi di mascolinità dannosa introiettata. Filippo le voleva bene? In modo malato sì. La diciamo meglio: in modo stereotipato, un modo apparentemente normale ma che normale non è, perché trattasi di mascolinità dannosa; e a leggere i dati, ahimè, comune a troppi adolescenti e adulti. Trattasi di quella coltura-cultura che è la base della cosiddetta piramide della violenza ed è esattamente quella che dobbiamo smontare e polverizzare.

Prof. Pierfrancesco Impedovo, PhD

Cambiare le narrazioni per cambiare il mondo

Il delicato ruolo dei media nel racconto della violenza

É stato un raptus dopo l’ennesimo litigio”… “l’ho uccisa per gelosia”… “lui lavorava, lei stava dalla mattina alla sera al telefonino”…

Capita spesso di leggere o ascoltare nei media frasi e titoli come quelli succitati. “Un assassino – racconta l’avvocata Tiziana Cecere presidentessa dell’associazione antiviolenza Fermiconlemani, in un noto caso di cronaca di cui mi sono occupata, quello del brutale assassinio della giovanissima Noemi Durini, veniva chiamato ‘fidanzatino’ su tutti i giornali. Le vittime di violenza spesso vengono violentate una seconda volta”.

Con queste parole tonanti l’avvocata ci spiega il fenomeno della vittimizzazione secondaria delle donne. Cioè, le conseguenze dei titoli o racconti sbagliati: i media, alla stregua di tribunali, forze di polizia, assistenti sociali, possono rendere di nuovo vittima la donna, sbagliando terminologia, angolo di visuale, titolo, fotografia, associazioni o contestualizzazione.  

L’errore più comune è guardare al caso ancora troppo dal punto di vista di lui, citando giustificazioni che diventano moventi. E’ invece auspicabile nei casi di violenza adottare il punto di vista della vittima, in modo da ridarle la dignità e l’umanità che, in una cronaca quasi sempre morbosamente centrata sulla personalità dell’omicida, sono spesso perdute. Si parla ancora di raptus nei femminicidi e si cerca l’empatia col carnefice.Purtroppo da inizio anno si contano oltre 10 femminicidi al ritmo di uno ogni 3-5 giorni. In molti casi si sente spesso parlare di “raptus di follia” senta tenere in considerazione che a livello scientifico il raptus è riconosciuto solo nel 5% dei casi di femminicidio, nella maggioranza dei casi il delitto è figlio di una cultura patriarcale ben radicata. A volte la narrazione segue  lo schema secondo il quale  il carnefice era buono, poi arriva il fulmine a ciel sereno e lui ammazza la donna.  In altre circostanze  la ricostruzione della violenza spinge all’empatia verso quel pover’uomo che una donna egoista ha deciso di abbandonare. La vittima viene raccontata come una donna che si separa, toglie i figli al marito, i soldi, la casa. Il punto di vista, insomma, è quello dell’assassino.Il problema è culturale, affonda le radici in quella società patriarcale che è il terreno fertile della violenza. La soluzione si trova in un lungo lavoro di formazione: formazione a tutti i livelli e gradi; a volte, anche professionisti avveduti cascano nell’errore di condividere, senza usare filtri, stereotipi che provengono dal racconto di polizia, carabinieri, magistrati o altre categorie.Per tutte queste ragioni la chiave sta sempre nella formazione di tutte le categorie professionali che vengono a contatto con le vittime. Ed in questo senso la mia associazione, nell’ambito di un nuovo ed ambizioso progetto che vedrà schierate professionalità di altissima specializzazione di cui disponiamo, a breve offrirà percorsi formativi specifici per tutte le categorie coinvolte nel delicato alveo della prevenzione, del supporto ma anche della cronaca delle fenomenologie devianti.La violenza contro le donne, i bambini ed altre vittime vulnerabili pone questioni sociali, sanitarie e giuridiche che vanno affrontate da operatori esperti e qualificati. Il saper riconoscere, ascoltare, proteggere e curare le vittime di violenze richiede, infatti, una preparazione professionale specifica, al passo con le evoluzioni sociologiche del fenomeno e con gli strumenti di contrasto e di tutela che ne conseguono. È anche necessario che gli operatori possano sviluppare un know how attraverso il quale concorrere alle strategie di prevenzione primaria della violenza (e anche il racconto mediatico concorre a ciò), divenendo attori protagonisti della gestione complessiva del fenomeno. Un simile approccio richiede quindi di superare valutazioni e soluzioni semplicistiche che rischiano di adombrare la complessità del fenomeno e di suggerirne rimedi inadatti”.

Il team di Fermiconlemani

Ennesima aggressione ai danni di una giovane donna nel barese: il difficile rapporto fra prevenzione e repressione.

La presidentessa Tiziana Cecere e il vicepresidente Pierfrancesco Impedovo si soffermano sulla fallimentare strategia di contrasto alla violenza di genere e sul ruolo strategico della poco praticata prevenzione.

Questa mattina, 2 novembre,  si è consumata l’ennesima aggressione ai danni di una donna  a Monopoli, nel Barese. Poco dopo le 5, infatti, una giovane donna poco più che trentenne è  stata colta di sorpresa dall’ex fidanzato mentre stava uscendo di casa per andare al lavoro. L’uomo, un bracciante agricolo coetaneo della donna, l’ha aspettata fuori di casa per parlare. Pare che tra i due ci sia stata una discussione, poi l’aggressione. L’uomo ha impugnato un coltello e colpito l’ex con almeno 30 coltellate.

In Italia si conta, praticamente, un femmicidio ogni tre giorni, mentre non si riescono a contare gli episodi violenti a danno delle donne e non è solo questione di “ingente quantità”. Ossessione, possesso, prevaricazione, vendetta.

Bisognerebbe concentrare l’indagine criminologica proprio sui motivi, perchè il femmicidio non è solo l’uccisione di una donna in quanto donna, è qualcosa di diverso, più profondo, più camaleontico, più perverso e più problematico.

Quanta razionalità e calcolabilità vi è in queste tipologie di crimini e quanta, invece, irrazionalità e incontrollabilità vi si cela? 

Questa potrebbe essere una buona domanda per indagare l’efficacia preventiva della pena in relazione a tali crimini, dato che l’unica risposta che le istituzioni offrono alla risoluzione del problema è appunto quella sanzionatoria.

Con il termine femmicidio si suole indicare l’uccisione di una donna in quanto donna. Tale definizione venne coniata dalla criminologa Diana H. Russel per indicare una species del fenomeno socio-culturale largamente diffuso e che ha antiche origini, della violenza perpetrata contro il genere femminile il c.d. femminicidio. 

La piaga della violenza sulle donne non ha destato particolari cambiamenti nel corso del tempo, esiste dall’età arcaica e persiste in età moderna (si pensi al fenomeno storico-giuridico del patriarcato dal quale derivava il diritto per il marito o per il padre di correggere, anche e soprattutto con la violenza, la propria moglie o la propria figlia o all’istituto del matrimonio riparatore ex art. 544 c.p. con il quale si cancellava l’onore della famiglia violato consegnando la propria figlia o la propria sorella in moglie al suo aguzzino).

È mutato, invece, il grado di conoscenza del fenomeno, complice specialmente l’attenzione mediatica. Certamente esiste una stretta correlazione tra violenza di genere e situazioni relazionali (l’esito delle indagini OMS e della Convenzione di Istanbul convergono per lo stesso risultato: gli autori delle violenze più gravi sono prevalentemente i partner attuali o gli ex partner 62,7%) e nel caso specifico dei femmicidi, il grado di tale correlazione aumenta vertiginosamente (il 73,2% degli omicidi di donne sono compiuti in ambito familiare).

Tuttavia, nell’ottica di un’analisi compiuta del fenomeno in chiave culturale, sociale e criminale non ci si può fermare a tale correlazione, bensì ci si deve calare nel dinamismo dei ruoli sociali e studiarne il funzionamento. 

Non si uccide solo una donna in quanto tale, si uccide una donna in quanto madre, sorella, figlia, fidanzata, ex fidanzata, moglie, ex moglie.

Ecco, spostare il focus dell’indagine dal genere ai ruoli sociali assunti dalle donne, in contrapposizione ai ruoli assunti dagli uomini, consente di indagare il fenomeno dalla prospettiva relazionale specifica e in tal modo consente di avere una visione più centrata sui meccanismi relazionali dai quali emergono i conflitti e dai quali dipendono le reazioni violente

Infatti, raramente i femmicidi avvengono come episodi singoli, la maggior parte delle volte rappresentano il culmine della violenza innescatesi nelle dinamiche di cui sopra. Proprio la progressione della violenza è un fattore che può essere sfruttato in ottica preventiva perchè i femmicidi si possono prevenire ma, solo se si agisce in tempo utile e con gli strumenti adeguati a disinnescare l’escalation criminogena. Per raggiungere questo obbiettivo, è evidente che non basta agire sul piano sanzionatorio, prova ne sono i dati statistici negativi a fronte degli importanti interventi normativi susseguitesi nel tempo.

Infatti, tali tipi di interventi sono calibrati per agire in un tempo non funzionale allo scopo che ci si prefigge di raggiungere: la prevenzione non in senso generico ma, la prevenzione di questa particolare classe di reati.

Mai come nel caso del fenomeno della violenza di genere urge agire in maniera, non solo preventiva ma, soprattutto in maniera tempestiva proprio perchè si creano dei meccanismi di evitamento  e di abnegazione del pericolo causati proprio dai dinamismi relazionali. Questo vuol dire che, nella maggior parte dei casi, quando si giunge nella fase in cui la donna denuncia le violenze subite o comunque attiva richieste di aiuto, il fattore criminogeno si è già largamente sviluppato rendendo più complicato la realizzazione dell’effetto deterrente delle misure attualmente disponibili.

<<Condivido ogni singolo pensiero dell’analisi fatta dal collega Prof. Impedovo>>, tiene a sottolineare la presidentessa di Fermiconlemani avv.ta Tiziana Cecere, <<I numeri parlano chiaro e le statistiche sono sempre le stesse.  E ogni volta ci si interroga: cosa non ha funzionato? A che punto siamo nel contrasto alla violenza di genere? Il primo punto è la prevenzione. Se da più di 40 anni il numero dei femminicidi non diminuisce, vuol dire che le politiche sino ad ora pianificate non funzionano a sufficienza, soprattutto non si è mai investito seriamente nella prevenzione e nella formazione. È fondamentale comprendere la natura della violenza maschile alle donne. Non si tratta di un problema di sicurezza, bensì di un fenomeno culturale.  Anche le nuove misure di recente modifica al “Codice Rosso” possono essere guardate con uno sguardo bonario ma non prevengono il fenomeno, arrivano quando è già avvenuto. Una prevenzione “seria” dovrebbe prevedere da un programma di sensibilizzazione focalizzato in particolare modo nel contesto scolastico,  avvalendosi della collaborazione di realtà costituite da professionisti di alta specializzazione come la nostra che ben conoscono i fenomeni e sono in grado di mettere in campo strumenti di educazione emotiva alla non violenza, facendo leva sullo sviluppo, sin da tenera età, della capacità di costruire relazioni basate sui principi di parità, equità, rispetto, inclusività. L’educazione dei bambini e delle bambine al rispetto di genere e il contrasto alla violenza domestica non può essere efficace a meno che non si operi soprattutto sui modelli culturali che sottendono, promuovono, e riproducono disparità di genere nella società. L’azione di prevenzione deve articolarsi in percorsi volti all’esplorazione, all’identificazione e alla messa in discussione dei modelli di relazione convenzionali, degli stereotipi di genere e dei meccanismi socio-culturali di minimizzazione e razionalizzazione della violenza.

Tutto questo Fermiconlemani lo mette già in campo a titolo volontario e gratuito per la collettività nel corso di molteplici e sistematiche iniziative all’interno di istituti scolastici di ogni ordine e grado, grazie allo spirito di servizio di tutti noi professionisti che crediamo nel valore strategico della prevenzione, con la speranza che presto le istituzioni governative comprendano che si tratta dell’unica via efficace per affrontare il fenomeno>>.

Nella mente del branco! Stupri e violenze di gruppo

Un seminario per riflettere e tracciare strategie di prevenzione

Il prossimo 19 ottobre presso la biblioteca comunale di Modugno, si terrà un importante seminario organizzato da Ikos Ageform in collaborazione con la nostra associazione dal titolo “Nella mente del branco!”.

L’incontro che inaugura la stagione formativa 2024, vedrà fra i relatori oltre alla prof.ssa Daniela Poggiolini monumentale fondatrice della scuola Ikos, la nostra presidentessa Avv.ta Tiziana Cecere in qualità di esperta criminologa.

Il seminario, per il suo alto valore scientifico, gode dei patrocini dell’Ordine degli Avvocati di Bari (che concederà 2 CFU), dell’Ordine degli Psicologi della Puglia e del comune di Modugno che lo ospita.

Il nostro socio, Prof. Pierfrancesco Impedovo criminologo e giurista, illustra la genesi di questa iniziativa.

L’idea di questo tavolo di approfondimento nasce dall’allarmante escalation di episodi in cui il “branco”  è protagonista; tutti ricorderanno l’orribile stupro – tanto per citarne uno recente – ai danni di una diciannovenne da parte di sette ragazzi, alcuni dei quali minorenni, avvenuto a Palermo lo scorso 7 luglio. Nel cellulare di uno dei presunti autori è stato ritrovato il video della violenza che, come si sa, ha fatto il giro del web.

Lo scandalo, la riprovazione e l’allarme che ne sono seguiti hanno portato tutti noi a porci delle domande, costringendoci a riflettere su cosa stia accadendo. Perché, purtroppo, quelli avvenuti a Palermo non sono fatti isolati. Quotidianamente sui media passano notizie di ragazze e donne abusate in gruppo durante momenti che dovrebbero essere di spensieratezza e divertimento. Sembra delinearsi come un’emergenza che finora abbiamo ignorato e riguarda in modo trasversale molti ragazzi, italiani e non, che vivono sul nostro territorio e che si verificano ovunque nel nostro Paese.

Partiamo da un punto. Alla base di tutte queste violenze vi è sempre lo scatenarsi di un comportamento filogeneticamente primitivo di dominio e predazione del maschio sulla femmina, dove sesso e aggressione sono connessi. Questa disposizione viene a noi dai primordi della nostra evoluzione ed è radicata come possibilità, non certo come determinazione ad agire, nella parte più antica del cervello maschile. La connessione tra sesso e violenza è quindi una possibilità per ogni maschio umano, che viene favorita ed esaltata dal gruppo. 

Sulla base di quanto appena detto, entra in gioco anzitutto un meccanismo di contagio emotivo, tipico del gruppo e anche della folla anonima; esso porta i componenti a vivere in modo automatico e riflesso la stessa attivazione emotiva, che è in questo caso di aggressione e sesso. Basta che uno del gruppo inizi una violenza, e gli altri si comportano mimeticamente allo stesso modo, in un crescendo sfrenato di brutalità privo di consapevolezza. Alcuni individui, per età e caratteristiche personali, sono maggiormente incapaci di opporsi al contagio emotivo: sono quelli poco autonomi dal gruppo, e anzi molto conformisti e dipendenti da esso, quelli poco abituati alla riflessione personale su di sé (cioè a chiedersi: “Che cosa sto facendo? Perché?”) e a scegliere in modo autonomo. Molti non sono nemmeno in grado di riconoscere le emozioni che stanno provando: le agiscono soltanto. In questa condizione la vittima e la sua sofferenza non vengono neppure viste e tantomeno colte; diventa quindi impossibile ogni condivisione empatica, che porterebbe a bloccare l’aggressione.

Per questi motivi il ruolo degli adulti, come educatori, è essenziale. Le cronache ben evidenziano la difesa amorale dei propri figli, attraverso il noto meccanismo di colpevolizzazione della vittima; è uno dei numerosi meccanismi di “disimpegno morale” che permettono di non mettere in discussione un comportamento e anzi di giustificarlo. Il ruolo dei padri e delle madri è decisivo, perché è in famiglia che il bambino impara fin da piccolissimo il rispetto, o al contrario il disprezzo, per le donne nella quotidianità della vita di tutti i giorni. Nella società italiana, dove le madri sono molto presenti, le donne svolgono un ruolo determinante nel favorire indirettamente, con il loro comportamento e i loro giudizi, la prevaricazione maschile, dalle forme più lievi a quelle più gravi. C’è un grande responsabilità in questo senso delle donne come madri. Non si tratta solo di saper porre dei limiti al proprio comportamento impulsivo, ma di essere in grado di vivere con l’altro sesso una relazione veramente umana, fatta di sentimenti e di relazioni individualizzate, ben lontana dalla sopraffazione.

Vi è un drammatico abbandono educativo sui temi della sessualità e degli affetti da parte sia della famiglia, sia della scuola. Occorre anzitutto riconoscere, superando le molte resistenze al riguardo, che esistono nei maschi disposizioni primitive alla prevaricazione che non vanno né legittimate né favorite dalla cultura. A questo riguardo, è necessario essere consapevoli del ruolo pervasivo e distruttivo assunto oggi dalla pornografia per gli adolescenti, in particolare per i maschi. La sessualità proposta dalla pornografia, anche quando non è manifestamente violenta, riduce la donna a oggetto del piacere maschile e favorisce di conseguenza i comportamenti aggressivi di sopraffazione.  

A partire dalla presa d’atto che la violenza maschile sulle donne è il frutto dell’interazione tra disposizioni biologiche e messaggi culturali che le sostengono, occorre favorire la capacità di coniugare sesso e affetti in una relazione personale basata sulla comune umanità. La famiglia e la scuola dovrebbero impegnarsi nell’educazione sessuale affettiva, che non può essere svolta solo dalla famiglia, soprattutto in adolescenza.

Caso Noemi Durini, l’assassino, Lucio Marzo, in permesso premio trovato alla guida in stato di ebrezza: la nostra riflessione.

Lucio Marzo, 24enne di Montesardo (Alessano), detenuto per l’efferato omicidio di Noemi Durini avvenuto il 3 settembre del 2017 nelle campagne di Castrignano del Capo, è stato denunciato per guida in stato di ebbrezza dalla polizia stradale, dopo essere stato fermato a Cagliari.

Il giovane, era in permesso premio per svolgere un’attività lavorativa nel vicino comune di Sarroch. Gli agenti, impegnati in una ordinaria attività di controllo, gli hanno intimato l’alt mentre era alla guida di un’auto che aveva richiamato la loro attenzione per il rumore proveniente dal veicolo. Davanti all’intimazione dell’alt, Marzo ha provato a dileguarsi, prima in auto e poi a piedi, ma alla fine è stato bloccato.

Il 24enne è detenuto nel carcere minorile di Quartucciu (all’epoca del delitto aveva 17 anni), dove sconta una condanna definitiva a diciotto anni ed otto mesi e stava godendo di un permesso concesso dall’autorità giudiziaria perché potesse essere impiegato in un esercizio commerciale nel comune in cui aveva provvisoriamente dimora. Il provvedimento autorizzativo, tuttavia, indicava tra le varie prescrizioni anche il divieto di usare mezzi a motore e questo spiega il tentativo di fuga. Non solo: Marzo è risultato positivo al test con l’etilometro e per questo è scattata la denuncia a piede libero.

Nonostante alla nostra Corte Costituzionale e a quella europea dei Diritti dell’Uomo la pena detentiva inflitta ai minorenni non piaccia e la ritengano una specie di “tortura” da vietare nella civilissima Europa, essa non ha una finalità punitiva ma una funzione ben precisa, a mio giudizio ancora attuale, ossia impedire agli assassini di nuocere ad altre persone e, auspicabilmente, tornare in società dopo aver intrapreso un adeguato percorso riabilitativo che faccia loro ben comprendere il disvalore di quanto commesso”. Questo il commento a caldo della nostra presidentessa, avv.ta Tiziana Cecere. “Prima di cedere a sentimenti di facile indulgenza, sarebbe bene ricordare chi è Lucio Marzo: un freddo e lucido omicida che confessò di aver ucciso Noemi dopo averla percossa e sepolta viva sotto alcuni massi. C’è poi un risvolto assai inquietante di questo efferato delitto che da criminologa mi colpisce particolarmente e su cui tengo a richiamare l’attenzione: il contegno dei genitori del ragazzo che, dopo la confessione dichiararono alla stampa «Siamo orgogliosi di lui», avendo loro figlio sostenuto di aver agito per estinguere una presunta conflittualità con la famiglia che considerava Noemi una presenza negativa in grado di esercitare una cattiva influenza sul di lui. Il grave gesto compiuto dal Marzo -detenuto in permesso premio- denota che siamo ben lontani da quel processo di consapevolizzazione e rieducazione necessario per il suo reinserimento virtuoso nella comunità; non v’è poi da stupirsi se l’elargizione disinvolta di questi permessi premio, alla luce delle condotte tenute, susciti l’indignazione delle vittime collaterali e dell’intera società civile. Per questo a titolo personale e a nome della mia associazione,  esprimo tutta la solidarietà possibile ad Imma, divenuta nostra socia onoraria che, nonostante l’indicibile dolore patito per la perdita di Noemi -a cui si somma la sofferenza per questo sconcertante nuovo epilogo -, ha fortemente voluto sin da subito spendersi in un’incisiva attività di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne, incarnando a pieno la nostra missione di prevenzione; perché  la prevenzione e il sostegno nei contesti familiari e formativi  sono i soli strumenti efficaci per arginare futuri episodi di violenza giovanile e costruire una società più sicura e compassionevole. Ed è questo che Fermiconlemani instancabilmente promuove da anni, investendo le sue risorse migliori fatte di professionisti altamente specializzati e volontari, per la formazione, la salute mentale e il sostegno familiare, affinché si diffonda la cultura della non violenza, del rispetto delle regole e del rispetto reciproco nei gruppi di pari. Contano le azioni ma contano anche i simboli, per questo fra le nostre svariate attività vi è anche quella di promuovere la diffusione di panchine rosse, istallazioni permanenti contro la violenza sulle donne; l’ultima l’abbiamo inaugurata lo scorso giugno presso il villaggio vacanze Cala di Rosa Marina e, fra le tante, ve ne è una  a cui tengo particolarmente inaugurata a Bari l’otto marzo del 2021 ed intitolata proprio a Noemi”.

FEMMINICIDIO: TRA SPETTACOLARIZZAZIONI ED INTERVENTI LEGISLATIVI

Riflessioni giuridiche -e non solo- della nostra socia Patrizia Ciorciari, avvocata penalista.

Dal primo di gennaio ad oggi sono oltre 20 i Femminicidi accertati. Donne che vengono uccise perché donne per mano dei propri patners o ex patners.

E’ una violenza dilagante che travolge non solo le donne uccise, ma intere famiglie, si tratta di donne, di mogli, di madri, di figlie, donne giovani e meno giovani. Si tratta di vite spezzate.

Giulia Donato Martina Scialdone Giulia Tramontano, tutte donne uccise dai rispettivi mariti compagni o ex che non hanno accettato la fine della storia, o come nel caso che ha toccato i cuori di tutti  di Giulia Tramontano, uccisa insieme al figlio THIAGO perché il partner non RIUSCIVA A REGGERE IL PESO DI DUE RELAZIONI”.

E’ una scia di sangue che non accenna a fermarsi  e che dopo aver macchiato  il 2022, continua  a farlo anche nel 2023.

Tutti questi drammatici eventi mi inducono in quanto avvocata in prima linea nella lotta alla violenza di genere e come privata cittadina sensibile a queste tematiche  a due profonde riflessioni.

La prima riflessione riguarda l’incidenza che  questi gravi accadimenti hanno dal punto di vista legislativo. Sull’onda emotiva di quest’ultimo terribile femminicidio l’attuale legislatore ha annunciato una ulteriore  giro di vite sulle norme per contrastare la violenza di genere. Dal 2009 ad oggi numerosi sono stati gli interventi che il legislatore ha posto in essere per contrastare questo fenomeno dilagante. Dalla Convenzione di Istanbul  sulla prevenzione e la lotta alla violenza di genere ratificata dall’Italia nel 2013; alla legge 119/2013 che prevedeva norme di sicurezza ;alla più recente legge n. 69/2019 meglio nota come Codice Rosso che oltre ad introdurre nuove fattispecie autonome di reato ha inasprito ulteriormente le pene per gli autori di tali crimini contro le donne oltre che ad introdurre ulteriori garanzie per la persona offesa.

Ma se guardiamo alla scia di sangue che i femminicidi hanno lasciato dal 2019  (anno di entrata in vigore del Codice Rosso) ad oggi,  se  guardiamo a tutte le vite spezzate, spontanea sorge la domanda: ma davvero inasprire le pene serve a qualcosa? A leggere i dati del Viminale sui femminicidi la risposta  è NO.  Perchè da sola la legge non basta, se a tale inasprimento non si affianca un vero e concreto intervento del Legislatore nella direzione del cambiamento culturale.  Servono interventi ed investimenti che vadano nella direzione di miglioramento delle competenze trasversali; servono fondi che aiutino i CAV, le case Famiglia, servono fondi per aiutare tutte quelle donne che sono  riuscite a salvarsi dalla spirale di violenza a causa di un marito e/o compagno maltrattante a riprendere in mano la propria vita spezzata. Servono fondi da investire nelle scuole, perché l’unico vero autentico cambiamento parte da qui. Dalla educazione delle giovani menti. È necessario sensibilizzare educare ed insegnare serve educare i bambini e le bambine di oggi per non dover difendere poi gli uomini e le donne di domani Perché da sola la legge non basta. 

Una seconda riflessione riguarda invece il circo mediatico che si determina a causa della risonanza a volte esagerata che i media danno a questi eventi criminosi al solo scopo di fare odience.  La spettacolarizzazione di questi tragici eventi, con il MOSTRO sbattuto in prima pagina o con conduttori televisivi che  come novelli PM AVVOCATI E MAGISTRATI si sentono in diritto di fare indagini ricercare le prove ad emettere sentenze in quello che ormai è diventata la sede ufficiale dei Tribunali ovvero le piattaforme social  . E quindi quello a cui assistiamo sono delle vere e proprie spettacolarizzazioni dei femminicidi,  in cui si consente a conduttori televisivi, di sbattere il mostro  in prima pagina o di minimizzare la gravità del reato ai danni della donna, che diventa così due volte vittima: vittima del reato prima e della narrazione che si fa della vicenda poi, oppure di anticipare sentenze.

Il mondo della informazione gioca un ruolo importante soprattutto nella mediazione tra ciò che viene espresso in Tribunale,  unica sede deputata ad esercitare la giustizia e ciò che viene trasmesso alla opinione pubblica.

L’ambito giudiziario non è certo immune da pregiudizi e stereotipi, per questo è importante un uso responsabile dello strumento informativo. L’abuso e la violenza di genere vanno comunicate e vanno comunicate in modo consapevole perchè raccontare la violenza è il primo passo per combatterla. Ed in questo i media esercitano un ruolo fondamentale.

Le parole a seconda di come vengono usate   possono pesare come macigni per la loro intrinseca violenza, oppure possono aiutare a comprendere distanziare ed elaborare. L’errore principale da evitare nella narrazione di una violenza di genere è quella che viene definita  la romanticizzazione  che tende a svuotare il femminicidio di tutta la sua gravità. Attraverso una errata narrazione   Amore Possesso e Gelosia diventano giustificazioni atte a deresponsabilizzare il reo. Sovente si ascoltano nei TG o nei programmi di informazione frasi come  “Era innamorato, ha ucciso in preda ad un raptus, oppure se l’e cercata”. Quante volte ho ascoltato queste frasi  quante e tutte le volte mi ribello ad esse perchè così facendo si finisce con il trasformare il carnefice in vittima ed in vittima il carnefice  minimizzando la gravità del reato, causando la cd vittimizzazione secondaria: del carnefice prima  e delle istituzioni poi. A questo poi si aggiungano le interviste ai vicini ai parenti ai genitori agli amici del reo che ovviamente lo descrivono come “un uomo, un padre perfetto ed esemplare oppure un bravo ragazzo” Tutti questi commenti trasmettono un messaggio negativo che tende a sminuire la gravità dell’atto violento.

Ecco perché il ruolo dei media è fondamentale . Ma per evitare che i social si trasformino in Tribunali populisti è necessario che la stampa ed i media in genere mantengano un certo equilibrio, che si responsabilizzino dinnanzi a verità giudiziarie che vittimizzano le donne o che giustificano gli uomini colpevoli, altrimenti chi ne risentirà sarà in primis questo lungo cammino di sensibilizzazione alla violenza il cui contributo primario parte proprio da un uso appropriato dei media. Dobbiamo perciò essere noi il cambiamento che vogliamo perché la copertura mediatica dei femminicidi continui ad essere il volano che induca le vittime di violenza a chiedere aiuto.

Patrizia Ciorciari

Delitto di Giulia Tramontano: quando l’aggravante discrimina la vita

Il nostro socio Prof Pierfrancesco Impedovo, processual-penalista e criminologo, si sofferma sulla delicata questione di diritto sottesa al caso della povera Giulia.

Una donna incinta è una donna che ha un’altra vita con sé. C’è, dunque, qualcosa in più che entra in gioco. C’è qualcun’altro a cui viene fatto un torto. Il torto supremo di portar via la vita. Nell’omicidio di una donna incinta accade qualcosa di doppiamente orrendo.

In queste ore gira in rete un hastag “#duplice omicidio” per sensibilizzare l’opinione pubblica a chiedere di cambiare il capo d’imputazione a carico di Alessandro Impagnatiello (risultato tecnicamente impossibile rebus sic stantibus), reo confesso dell’uccisione della giovane Giulia Tramontano incinta al settimo mese di gravidanza. 

Ricordiamo che il barman è imputato di omicidio volontario aggravato, occultamento di cadavere ed interruzione di gravidanza non consensuale. 

La domanda rivolta alle scienze giuridiche è quindi semplice.

Uccidere una donna incinta è duplice omicidio? 

Negli Stati Uniti d’America sì. 

Il governatore Eric Holcomb ha infatti promulgato una legge che riconoscere anche il bambino nel grembo come vittima, nel caso venga uccisa la donna che lo porta.

Ciò vuol dire che sia che si tratti di omicidio volontario, che di omicidio colposo il reato è duplice.

La norma vale «in qualsiasi fase dello sviluppo» del bambino e non è rilevante se l’autore del reato fosse consapevole o meno della gravidanza. Il secondo omicidio comporta un aggravamento di pena da sei a vent’anni. 

Per il nostro ordinamento, invece un feto non è ancora una persona. E se ciò che uccidi non è una persona “tecnicamente” non è stato un omicidio.

In caso di un omicidio di una donna incinta è quindi considerato come omicidio di una persona -con delle aggravanti, certo- ma non un duplice omicidio. Perché per la legge è stata uccisa una sola persona. Il feto viene considerato a tutti gli effetti un “pezzo” della madre, non una vita autonoma. 

Questo almeno finché il feto vivo non si è distaccato, in modo naturale o indotto, dall’utero materno. O a partire dal travaglio, secondo interpretazioni più recenti e meno restrittive del concetto di “uomo” (cfr Cas. 27539/2019). 

Per differenziare quindi il reato da procurato interruzione di gravidanza a omicidio ci deve essere il passaggio dalla vita intrauterina a quella extra uterina con la manifestazione del primo atto respiratorio. In altre parole il feto deve nascere vivo.

Pertanto, la legge italiana attualmente non prevede il riconoscimento del duplice omicidio in caso di assassinio di una donna in gravidanza, indipendentemente dal mese di avanzamento della stessa.

Da qui il sorgere in queste ore di un vasto movimento d’opinione atto a promuovere, nelle nelle opportune sedi governative, la richiesta di un intervento legislativo, affinché venga riconosciuto il duplice omicidio quando la vittima è una donna in gravidanza in stato avanzato e giungere ad infliggere pene più gravi.

  • l’Italia, purtroppo, non è nuova a casi di questo genere: 2001, Silvia Cattaneo 26 anni di Arese, 2003 Monica Ravizza 24 anni di Milano, 2006 Jennifer Zacconi 22 anni di Olmo di Martellago, 2017 Irina Bakal 21 anni di Formeniga, solo per citarne alcuni. 

La posizione del diritto penale di fronte ai temi dell’inizio e della fine della vita umana è accomunata non solo dalle zavorre ideologiche che, almeno in certi casi, sono in grado di “appesantire” l’opera dell’interprete e/o del legislatore, ma anche, su un piano per certi aspetti opposto, dalla necessità di fare i conti con gli incalzanti progressi della scienza e della tecnica. 

Rispondere ai quesiti “quando si nasce?” e “quando si muore?” in una prospettiva giuridica è divenuta un’operazione particolarmente complessa, visti, da una parte, gli studi sempre più dettagliati sull’embrione e, dall’altra, le tecniche che consentono di prolungare le funzioni vitali di un individuo ben al di là di quanto fosse anche solo immaginabile ai tempi di compilazione del codice penale. 

Il codice penale, come s’è detto,  assume come discrimen di tutela della vita il momento della nascita, che segna anche l’applicazione della fattispecie di omicidio comune (art. 575 c.p.) o, in presenza di condizioni di abbandono morale e materiale, di infanticidio (art. 578 c.p.). La “nascita” deve essere intesa come il distacco del feto dall’utero materno, naturale o indotto: prima di questo momento possono trovare applicazione i delitti di aborto, dopo questo momento si apre la via all’applicazione dei delitti di omicidio. 

Una legislazione ragionevole, forse, dovrebbe anzitutto predisporre una tutela il cui grado di incisività corrisponda ai diversi stadi di sviluppo del concepito, in accordo con gli interessi di cui è titolare la madre (rectius, la donna), senza contare la necessità di delineare un sistema intimamente coerente di tutela penale della persona in limine vitae e in limine mortis: pur nella consapevolezza che l’“equilibrio perfetto” non è un obiettivo giuridicamente raggiungibile, specie quando a venire in considerazione siano gli interrogativi essenziali relativi alla stessa condizione umana (Cos’è la vita? Cos’è la morte?). 

Attendiamo fiduciosi.

Pierfrancesco Impedovo

Giulia Tramontano: un femminicidio e un figlicidio figli della società dell’Ego.

Il nostro socio Prof. Michele Colasuonno, psicologo e teologo, ci accompagna in una riflessione struggente e schietta sulla genesi di questi tragici avvenimenti.

Mentre mi trovo davanti al foglio bianco, cercando le parole, sentendo le emozioni, sfogliando ogni sorta di manuale o libro che mi aiutino a commentare quanto accaduto a Giulia Tramontano, la Tv è accesa e il Tg riporta ancora un femminicidio, quello di Pier Paola Romano.

Una sola domanda mi sorge: dove stiamo andando?

In questi giorni, anche per via del mio ruolo di psicologo responsabile del trattamento degli offender per l’associazione fermiconlemani, approfondivo lo studio di un testo e mi sono imbattuto in un capitolo dal titolo “Uomini che esercitano violenza sulle donne: una lettura alla luce della teoria dell’attaccamento”, e l’autore con competenza e senso realistico, riporta anche dati sociologici: da sempre, da quando è nata la società maschilista la violenza sulle donne, purtroppo aggiungerei io, è stata socialmente accettata e taciuta, ma che forse non arrivava mai a tanta crudeltà e violenza, per vari motivi; ma come l’autore anche io mi chiedo può questo giustificare uno stile aggressivo, violento, predominante nelle relazioni?

Oggi ci troviamo non solo davanti ad un femminicidio ma anche ad un figlicidio, sì perché Giulia era al settimo mese di gravidanza.

Dove stiamo andando?

Lascio ad altro spazio tutto quello che può riguardare la teoria dell’attaccamento (sarei troppo prolisso), e mi chiedo che fine ha fatto il Super-Io di freudiana memoria, dove sia finita la scala dei valori che governa la mente e l’agito di ogni persona; il narcisismo ci sta portando verso la soddisfazione esclusiva dei nostri bisogni a scapito della vita delle persone che ci circondano e che, in certi casi, sosteniamo di amare e, ancora di più, a scapito della vita di un nostro figlio.

Non c’è più tempo. Urge fare qualcosa che fermi questa mattanza di valori, questa mattanza di rispetto, la solitudine del narcisismo ci sta portando verso una disumanizzazione dell’Umano.

Da docente di una materia che mi permette di entrare in contatto con i miei alunni  senza l’ansia della fine del programma, ritengo che la scuola possa essere uno dei luoghi dove ancora si potrebbe insegnare l’umanizzazione, dove oltre alle tante materie assolutamente utili e indispensabili, si potrebbe scalfire il narcisismo maligno dilagante, ma per poter fare questo bisogna fare scelte concrete e audaci, forse politicamente poco produttive, ma umanamente molto utili. 

Tutto già detto forse, lo sgomento e il dolore irromperanno nuovamente alla prossima notizia che ascolteremo.

Ma ora lasciatemi fluire tutto il dolore per il piccolo Thiago, questo il nome del bambino che Giulia aveva in grembo:

Caro papà, quando ero nella pancia di mamma non ho mai avuto paura. Lì era bello; ad ogni passo che lei faceva mi sentivo cullato, il battito del suo cuore era una musica dolce che ascoltavo prima di addormentarmi. 

Poi, a volte, sentivo qualcosa che mi toccava un piedino, o il braccio: erano le tue mani papà. Potevo riconoscerle, perché a differenza di quelle delle mamma, si muovevano con un po’ di timore. Forse avevi paura di farmi male o di darmi fastidio. Invece a me piaceva. Mi sentivo felice. Quando hai iniziato a parlarmi, piano piano ho imparato a riconoscere anche la tua voce; che buffo eri quando mi cantavi quelle canzoncine, o quando mi raccontavi delle domeniche che sarebbero arrivate, dei giochi con la palla, della scuola, delle gite. Che ridere papà. Anche la mamma rideva, forse anche lei pensava che tu fossi buffo. 

Un giorno è successo qualcosa di strano; ho fatto una capriola e avevo tantissima voglia di nuotare…sentivo la mamma un po’ ridere e un po’ piangere. Poi ho riconosciuto la tua voce. Dicevi alla mamma che era bravissima, che stava facendo un buon lavoro. Dicevi che da lì a poco, io sarei stato tra le sue braccia e che doveva mettercela tutta. 

Quando finalmente sono nato, vi ho sentiti. Ho sentito la pelle della mamma e il sapore del suo latte. Ho sentito cadere sulla mia testa gocce di lacrime. Ma eccole li: le tue mani. Le ho riconosciute perché si muovevano con lo stesso timore di quando mi accarezzavi attraverso la pancia. E finalmente mi sono sentito al sicuro.

Da quel momento ti sei preso cura di me. Hai smesso di andare alle partite di calcetto, ora giochiamo insieme a bubusettete. Hai smesso di guardare i film di paura, ora insieme leggiamo tanti libri di fiabe. Hai smesso di andare a dormire tardi perché ora, quello che ti piace, è addormentarti abbracciato a me. Quando mi cambi il pannolino, sei sempre il solito papà buffo che ho sempre pensato! Le tue smorfie mi fanno ridere un sacco! 

Ora sono un po’ più grande. Sto crescendo papà, e non ho paura. So di potere scalare il divano, perché tu sei vicino a me. So che posso fare le corse, perché se cado un tuo bacio fa passare il dolore. So che posso combinare tutti i disastri del mondo, perché quando la mamma mi rimprovererà, tu sarai mio complice e dietro di lei mi farai l’occhiolino. 

Papà, promettimi una cosa: promettimi che anche quando ti arriverò alle spalle non smetterai di raccontarmi di mostri e pirati, non smetterai di fare capanne con sedie e coperte ma soprattutto continuerai a fare ridere la mamma. Grazie papà, per avermi regalato te stesso. 

Con tutto il bene del mondo, il tuo bambino.” – Maria Russomanno –

Ecco tutto quello che ti sei perso, Alessandro Impagnatiello. 

Prof. Michele Colasuonno

la lettera citata è tratta da: https://www.chizzocute.it/lettera-al-papa-da-un-neonato/